L’AUTOBIOGRAFIA FOTOGRAFICA
di Isabella Tholozan
L’autobiografia fotografica è per sua natura un’opera senza finale, eppure possiede sempre un’ultima foto.
Il vocabolario Treccani definisce l’autobiografia come la narrazione della propria vita, o parte di essa, soprattutto come opera letteraria: scrivere, tracciare la propria esistenza spirituale, intellettuale, ripercorrendo più che gli avvenimenti esterni, le vicende dello spirito, del pensiero, l’attività di studio e ricerca.
Si può pertanto definire l’autobiografia come la volontà di ogni singolo individuo di illuminare la propria esistenza nella realtà sociale contemporanea, utilizzando i contenuti come spunto per comprendere gli eventi, promuovendo cambiamenti che partono dall’interiorità nella ricerca di una personale libertà, al fine di prendere consapevolmente in mano la propria vita nella responsabilità individuale e sociale. Favorire il dialogo su temi che spesso sono difficili da affrontare quali per esempio il morire e la morte (Dott.ssa Michaela Glockler).
Lavorare con l’autobiografia non è pertanto, seguendo le tracce fino a qui ordinate, una mera attività di ricostruzione temporale degli eventi che hanno caratterizzato la nostra esistenza ma, a fronte di un importante lavoro, mostrare di Sé qualcosa che va oltre, imprimendo nel resoconto che ne nasce un profondo atto di testimonianza che coinvolge non solo il soggetto ma tutto quanto intorno ad esso ha lasciato traccia, l’esistenza nella realtà sociale del contemporaneo appunto.
La prassi dell’autobiografia fotografica è ovviamente differente da una auto biografia letteraria, anche se per entrambe esiste una qualche forma di “patto autobiografico” (Lejeune 1986)) da rispettare, ossia il contratto di lettura che si stabilisce tra il narratore e il personaggio di cui si narra, ovvero sé stesso.
Si crea pertanto una sorta di montaggio di deittici disposti rispondendo all’unica traccia certa del “ciò è stato” (ça a étè di R.Barthes), unica certezza di quanto è realmente successo in un luogo in un determinato istante.
Differente dalla forma letterale in gran parte solo per l’aspetto fisico, vista la materialità della fotografia, mentre, come detto, gli sviluppi e la sintassi dei motivi narrativi restano alquanto simili, nonostante non ci siano parole a costruzione della storia, bensì personaggi e cose vere. Il narratore ha pertanto la possibilità attraverso l’uso delle immagini di essere scenografo ma anche di disporre del tempo che contraddistingue gli spazi all’interno dei quali la storia si sviluppa, avanti ed indietro nel tempo.
Fondamentale è, pertanto, comprendere l’importanza di questo genere di attività, sia essa sviluppata in forma letteraria, terapeutica e fotografica.
Nell’autobiografia fotografica, che è la forma a noi nota, la narrazione è affidata alla transizione temporale con la quale si sceglie l’ordine degli eventi, disponendo materialmente sulla scrivania quella continuità di tempo all’interno della quale incastonare non solo i fatti ma anche l’emozione di chi, ricordando, immagina, riportando alla superficie memorie involontarie, attività quest’ultima normalmente fuori dal potere della mera rievocazione mentale.
È così che l’autobiografia fotografica finisce di essere un banale susseguirsi di fatti accaduti per divenire narrazione di Sé e di attimi che, seppur senza conclusione, entrano in profondità nella vita dell’autore; per semplificare potremmo chiederci: cosa succede quando volto la macchina verso di me? Questa domanda, che vale anche per l’autoritratto fotografico, in realtà accoglie in sé la risposta per entrambe: il mondo interno, in uno spettacolare testacoda, come lo definisce Concita De Gregorio nel suo illuminante testo “Chi sono io?”, passa attraverso l’immagine e torna indietro a cercarsi, allo scopo di definire la propria identità e reputazione.
All’interno del semplice disporre di figure e fatti, calandosi nel profondo di periodi narrativi è quindi determinante inserire un filo, quel famoso filo del racconto di cui è fatto anche il filo della vita, attraverso tutto ciò che è avvenuto nel tempo e nello spazio! (Robert Musil).
Ed è seguendo questa logica di costruzione che, così come in letteratura, anche nell’autobiografia fotografica si smette di rappresentare gli eventi come per una comune archiviazione di fatti per entrare in profondità nella vita dell’autore, estraendo ed insinuandosi all’interno delle pieghe segrete che ogni biografia nasconde, obbedendo alla regola secondo la quale il Narratore stabilisce un ruolo con il Sé protagonista.
Succede, nel lavorio necessario di ricostruzione degli eventi, che le immagini trovate (non sono mai abbastanza!) generino dei vuoti spazio temporali, dei lassi di tempo all’interno dei quali gli eventi e le persone non hanno avuto testimonianza fotografica. Una sorta di conflitto, come lo definisce Epifanio Ajello (Il racconto delle immagini - 2009), che permetterà, grazie alle capacità dell’autore, di formare, ricreare quel dialogo necessario affinché il filo rosso si sviluppi nella storia foto-autobiografica.
Nell’atto di riempire questi vuoti, l’autore è chiamato a ripercorrere gli eventi mostrandoli attraverso altre immagini, a volte ricreate, a volte cercate, attingendo da collezionista a nuovi momenti, istanti manifestanti che svolgono il compito di collanti, a chiusura di un cerchio magico che ci rappresenta.
Questi scarti del reale, come sono state definite queste immagini, nascono dall’attività del ricordare che consente di rinnovare il proprio sguardo sulla vita attraversata, di mettere a fuoco alcune delle strade percorse e di ripartire verso nuovi giorni con maggiore auto-coscienza.
Che si sviluppi in campo terapeutico o autoriale, l’autobiografia fotografica consente l’unione spazio temporale di presente e passato verso una visione interiore del futuro più arricchita e consapevole; un’operazione di ascolto che porta ad una innegabile cura di sé e degli altri, con gli altri.
Le immagini che propongo nascono in parte dai laboratori del gruppo “LabiArts” con il quale collaboro da alcuni anni; ideati dalla fotografa/artista Silva Masini, nascono con l’intento di sviluppare l’espressività artistica attraverso personali ricerche che comprendono la fotografia, la scrittura creativa, la foto e arteterapia, momenti di Gestalt di gruppo.
L’Albero della Vitalità in particolare si sviluppa sul tema della psicogenealogia (metodo Jodorowsky) con l’obiettivo di osservare, prendere consapevolezza con le figure “chiave” della nostra famiglia, rivisitare in modo creativo (riempire i vuoti) il nostro albero genealogico, osservando e sdrammatizzando i comportamenti, i gesti e i condizionamenti che ripetiamo nella nostra vita. Tutto questo attraverso l’osservazione e l’uso dei vecchi album di famiglia, per crearne uno nuovo su misura e più consapevole, compiendo quell’atto di accettazione e perdono che tutti aneliamo. (metodo fototerapia Judy Weiser).
Ma non solo in ambito terapeutico è possibile utilizzare questo metodo espressivo, la fotografa Camilla Urso, della quale vedete alcune immagini estrapolate dai suoi portfolio, dice di sé: “Non sono una scrittrice. Ma senza fotografia non potrei scrivere alcuna storia. Nemmeno la mia”.
Scriviamo di Noi quindi, con il linguaggio che la macchina fotografica ci insegna!
Bibliografia:
Michiaela Glockler – La Biografia, Cinque vie per comprendere la Vita – Ed. Arte dell’Io
Riccardo Musacchi – FotoTerapia psicocorporea – Ed. FrancoAngeli Psicoterapie
Concita De Gregorio – Chi sono io? – Ed. Contrasto
Angela Mazzetti Fanti – Raccontarsi per fotografie, Fotografie per raccontarsi – Ed. youcanprint
Epifanio Ajello – Per una autobografia fotografica – CoSMo
Pubblicato su Fotoit di novembre 2020